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Calogero Avenia

#licatesiacasa…nelmondo

#licatesi a casa…nel mondo. Calogero, infermiere a Reggio Emilia: “Vorrei abbracciare i pazienti”

#licatesi a casa…nel mondo fa tappa in Emilia. Stasera pubblichiamo la testimonianza di Calogero Avenia, 27 anni, infermiere, in servizio in una residenza sanitaria per anziani in provincia di Reggio Emilia.

Ecco la storia che ci ha inviato:

“Mi chiamo Calogero Avenia, ho 27 anni e sono un Infermiere, da quasi 6 mesi lavoro in una Residenza Sanitaria per Anziani in provincia di Reggio Emilia. Mi sono laureato a Novembre del 2018 a Civitavecchia in provincia di Roma. Da sempre ho amato questo lavoro, perché ho ammirato per anni, sin da piccolo, l’operato di mia madre essendo anche lei un’infermiera in servizio presso l’ospedale San Giacomo d’Altopasso di Licata. Devo ammettere che è un lavoro molto usurante, sia fisicamente che emotivamente, ma che dà delle grandi soddisfazioni, ma soprattutto in questo periodo sta mettendo a dura prova un pò tutti noi. Noi infermieri siamo sempre preparati all’emergenza, ma mai avrei creduto di doverne affrontare una simile, così subdola, silenziosa e non tangibile. Passare ore e ore chiusi in un reparto che non si ferma mai, con la mascherina che ti stringe e non ti lascia respirare, che ogni ora che passa crea solchi sul tuo viso, con gli occhiali che stringono e che si appannano ad ogni respiro, la cuffia che ti tira i capelli, per non parlare di quella tuta integrale. Ma in questi momenti tutto questo passa in secondo piano, perché devi metterci tutto te stesso per esserci per coloro che ora stanno male, devi essere sempre concentrato, sempre sul pezzo, insomma devi esserci in tutto e per tutto: chi chiama per l’infusione terminata, chi per la padella, chi per il monitor che suona, chi è attaccato ad un respiratore, chi sta peggiorando, chi non ha più pazienza di stare rinchiuso in un posto che non ama o rinchiuso in una maschera che lo stringe… e come fai a fargli capire di resistere? Di non mollare, di tenere duro quando hanno davanti a loro la grande paura di morire? In questi momenti capita di scambiare uno sguardo con i colleghi, uno sguardo che significa: ci siamo dentro, ma ci siamo insieme. Quando hai tra le mani la vita delle persone non esistono più rancori, i tuoi colleghi sono il prolungamento delle tue braccia, dei tuoi pensieri, del saper fare e del saper essere. Sto imparando tanto da questa terribile esperienza, come ho sempre fatto nella mia vita, cerco di trarne insegnamento e di cogliere la parte positiva, anche se questa volta mi é stato veramente difficile. Vorrei abbracciare ogni familiare di ogni paziente che sta lottando o che ha lottato, che ha affrontato la paura e la solitudine. Vorrei non essere mai un parente di quelli che sento al telefono quasi ogni giorno, quelle voci piene di paura e angoscia, la paura di chi ha un genitore o un parente chiuso in una struttura e che non vede da più di 2 mesi ormai, e che può soltanto sperare che quel maledetto Virus non colpisca il proprio caro, a volte basta anche solo una parola di conforto, un semplice “va tutto bene, mamma/ papà sta bene. D’ altronde siamo degli esseri umani prima di essere dei professionisti

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